S. Antonio Abate è santo molto popolare nelle nostre campagne. A lui si affida, per un’errata interpretazione del maiale che lo affianca nell’iconografia, simbolo delle tentazioni vinte (è al guinzaglio), la protezione dei campi e degli animali da stalla. Il 17 gennaio si preparano ancora in molte località i tradizionali falò, un fuoco purificatore che viene benedetto, anticipo del fuoco dal quale sarà tratto il cero pasquale.
Sono momenti preziosi per immergersi nella cultura contadina lombarda. Una cultura che ha forgiato il modello abitativo della cascina, una vera e propria micro-comunità in cui tutti si sentivano responsabili e si creavano stretti rapporti di vicinanza tra le famiglie. Le case erano contigue una all’altra, nel cortile giocavano i figli di tutti, sotto lo sguardo vigile della Madonnina. In molti luoghi sono ancora visibili anche il pozzo ed il mulino. Molte cascine, oltre alle immagini sacre, avevano il privilegio di una cappella officiata, in cui si teneva anche il catechismo per chi fosse troppo lontano dalla chiesa parrocchiale.
Tornano alla mente le parole del nostro arcivescovo, card. Angelo Scola, nel discorso alla città 2013, incentrato sul tema di EXPO 2015.
“Non si potrà, pertanto, rispondere alla domanda “cosa nutra la vita?” in modo efficace senza assumere in prima persona il compito di educarsi ed educare uomini”.
Si teorizzava l’esistenza di una “ecologia umana”, ovvero di un giusto trattamento dell’uomo secondo la sua dignità intrinseca. Chi la riconosce sa anche correttamente soccorrere l’affamato e tratta i frutti della terra come un dono di cui è beneficiario, non padrone assoluto.
Concetti che l’arcivescovo ha ribadito nella scorsa 64° Giornata nazionale del ringraziamento per la terra (9 novembre), un antico atto della pietà contadina che ringrazia il Signore dei benefici dell’anno.
“Il nostro rendimento di grazie si dilata alla Chiesa nostra madre e maestra. Noi amiamo la Chiesa perché ci accompagna nel vivere gli affetti, il lavoro, il dolore, il riposo, l’educazione, l’edificazione della giustizia, la festa”.
E’ da Dio che discende uno sguardo globale sull’esistenza, e quindi anche sul coltivare i campi per trarne cibo. L’acqua delle tante rogge lombarde ricorda al card. Scola il Battesimo:
“la fecondità naturale dell’acqua acquista un valore pieno nell’acqua benedetta che la Chiesa dispensa in nome di Cristo”.
I nostri “vecchi” avevano questo sguardo, questa sapienza simbolica, l’uomo post-moderno spesso no.
“Ci sono dei dati fondamentali. Noi abbiamo bisogno della terra, e ne avremo sempre bisogno. (…) Questa festa (…) rischia da noi di essere spesso dimenticata, perché, come dice il Santo Padre Francesco, pensiamo di poter acquistare tutto con il denaro e non ci rendiamo conto che la terra ci ricorda il principio del dono. Seminiamo, prepariamo, ma c’è una dimensione della fecondità della terra che sfugge anche alle nostre tecnologie”.
Quelle Madonne e quelle cappelle nelle cascine volevano dire proprio questo: l’universo ha un ordine, ed un Ordinatore che lo ha costruito con amore. In quel clima sorgevano spontanee professioni di fede come quella della madre di don Luigi Giussani, che nell’alba tersa di una mattina d’inverno, a Desio, mentre camminava verso la Messa parrocchiale esclamò:
“Com’è bello il mondo, come è grande Dio!”.
Dal “mistero” dell’agricoltura, in cui l’uomo interagisce con l’azione creativa di Dio, discende una “ministerialità” del contadino:
“Io penso che i lavoratori della terra svolgano una funzione fondamentale non solo per uscire dalla crisi, ma per attraversare il travaglio del nuovo millennio”
nel senso di crisi spirituale. I riti contadini sono riscoperti in tanti oratori proprio per il loro aspetto didattico. I giovani, che nulla ricordano del mondo dei loro avi, li vivono come un momento di socializzazione nella fede. Si riparte dal vin brulé per riaccendere in loro la scintilla della civiltà cristiana che animava i cortili delle cascine.
Accanto a queste iniziative, crescono nell’arcidiocesi i cori che re-imparano le antiche melodie dei Vesperi ambrosiani in latino, così come venivano cantati nelle parrocchie.
L’interesse filologico si trasforma in vera rievocazione storica ed in preghiera concreta: sono ormai diverse le chiese che hanno organizzato pomeriggi speciali, in cui sono stati celebrati per davvero i Vesperi secondo l’antica tradizione ambrosiana. E’ il modo con cui il Vetus ordo, bypassando tanti veti sull’utilizzo del Messale del 1955, ritorna a farsi vivo nella maniera più semplice e popolare.
Non si tratta di inconfessabili pulsioni lefebvriane. Gli ambrosiani del terzo millennio cercano, più o meno inconsciamente, di rintracciare la civiltà che Leone XIII ha indicato nell’Immortale Dei (1885):
“Fu già tempo che la filosofia del Vangelo governava gli Stati, quando la forza e la sovrana influenza dello spirito cristiano era entrata bene addentro nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli ordini e ragioni dello Stato. (…) Ordinata in tal guisa la società, recò frutti che più preziosi non si potrebbe pensare, dei quali dura e durerà la memoria, affidata ad innumerevoli monumenti storici, che niuno artifizio di nemici potrà falsare od oscurare”.
Riconoscono sotto i frammenti ancora disponibili i valori della Cristianità e vogliono vivificarli nel presente, nella costituzione di quel “nuovo umanesimo” a cui richiama fin dal discorso di S. Ambrogio il card. Scola. L’arcivescovo si confronta in queste settimane sul tema con tutto il clero ambrosiano.
Michele Brambilla