Cecilia, Agnese, Luigi Gonzaga, Josè del Rio, Domenico Savio. La tradizione della Chiesa ci tramanda nomi di Santi bambini appartenenti a tutte le epoche ed a tutte le condizioni sociali, talvolta approdati all’eroismo supremo del martirio. Si sta forse per aggiungere a questi nomi quello di Carlo Acutis (1991-2006), adolescente milanese di cui si chiude con successo, il 24 novembre, il processo diocesano in Arcivescovado. La causa ora approda in Vaticano, per la fase a livello di Chiesa universale.
Carlo, battezzato con il nome di S. Carlo e, di conseguenza, con lo stesso di Karol Wojtyla nello stesso anno in cui S. Giovanni Paolo II assisteva allo scioglimento dell’URSS, si vide subito impegnato a riaffermare la centralità nella vita dello sguardo soprannaturale, in particolar modo riguardo all’Eucaristia. Era tale, fin dall’asilo, la comprensione e la devozione verso il SS. Sacramento che il card. Carlo Maria Martini emise un’apposita dispensa per anticipargli la Prima Comunione al’età di 7 anni.
La vita ordinaria di Carlo, però, non era quella del mistico. Immediatamente comprese la necessità di farsi missionario.
“La sua vita da ragazzo di quartiere che aveva sempre uno sguardo sul mondo. Il suo essere parte di una comunità e al servizio della stessa. Per lui la comunità non era solo quella del suo quartiere, ma tutta la realtà che lo circondava. Si racconta così la storia di un ragazzo che nella sua normalità ha costruito una straordinarietà unica”.
Per di più dimostrò un’immediata predisposizione all’uso della tecnologia per l’apostolato (“era dotatissimo per l’informatica, capace di carpirne segreti normalmente accessibili solo a chi ha compiuto studi universitari specialistici. I suoi interessi spaziavano dalla programmazione dei computer al montaggio di film, dalla creazione di siti web a giornalini di cui curava redazione e impaginazione”), dimostrando ancora una volta come la Fede non sia affatto nemica della scienza e che la stampa, oggi, è un settore strategico per i cattolici.
Un Santo, quindi, giovane, ma non “da oratorio”, o, almeno, non da oratorio inteso come semplice momento aggregativo, caratterizzato da una spiritualità generica, incapace di affrontare con la dovuta efficacia le obiezioni della cultura contemporanea, come troppo spesso accade ancora oggi. In un’epoca in cui si pensava che l’educazione cristiana negli oratori dovesse auto-limitarsi ai balli di gruppo o, tutt’al più, a verbosi corsi di lectio divina, impostati come se la Bibbia fosse quasi l’unico orizzonte, il quindicenne Carlo ribadì che Cristo è innanzitutto una persona vivente nella Chiesa (intesa nella sua universalità) e nei Sacramenti; che la carità non si limita a quella sociologicamente rilevabile; che il S. Rosario e le altre devozioni non sono incompatibili né con la gioventù, né con la pastorale giovanile di oggi. E’ diventato così d’esempio per gli stessi educatori adulti. La sua citazione più “cliccata” è “tutti nasciamo come originali, ma molti muoiono come fotocopie”.
Come dice il card. Angelo Scola all’Eremo S. Salvatore, “abbiamo bisogno di persone e di comunità attrattive”, e torna a ribadire: “bisogna evitare di avere lo sguardo “voltato indietro” e sprofondato nel rimpianto. Occorre, invece, domandarci cosa dobbiamo edificare e come farlo. (…) L’epoca dell’ideologia ci ha invece portato a dimenticare che non viene prima l’analisi, ma il fondamento è vivere il rapporto con Cristo”.
Michele Brambilla