Ogni tanto teologi dell’uno o dell’altro orientamento presentano manifesti di contestazione del Magistero inseguendo, spesso, punti di vista comprensibili solo agli addetti ai lavori. Fin dagli anni del dissenso post-sessantottino, ma si potrebbe tornare indietro fino al linguaggio a tratti criptico della “Nouvelle Theologie” condannata da Pio XII nella Humani generis (1952), la teologia dei cattedratici ha talvolta smarrito il contatto e l’osmosi con il sensus fidelium, traducendosi, quando andava bene, in testi intricati, densi di citazioni astruse, che rincorrevano i nomi più in voga nelle facoltà teologiche d’oltralpe e professavano il più totale disprezzo per le pratiche di pietà.
Se il teologo si chiude in una ricerca fine a se stessa, smarrisce il senso di una vocazione da esercitare a servizio della comunità cristiana e in particolare dei suoi pastori. E’ quanto afferma mons. Mario Delpini durante la conferenza e la Messa con le quali prende pienamente possesso anche della sua carica di gran cancelliere della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, che festeggia proprio nel 2017 mezzo secolo di vita. Fu infatti il beato Paolo VI a voler impiantare nel 1967 a Milano, sua antica sede episcopale (1954-63), una facoltà teologica interregionale (serve infatti le regioni ecclesiastiche di Lombardia, Liguria, Triveneto, Piemonte) volutamente aperta anche ai laici, di cui l’arcivescovo di Milano è di diritto gran cancelliere, rappresentato nella direzione dell’istituto da un supremo moderatore.
Tra ministero dell’arcivescovo e centri di elaborazione teologica deve esistere un rapporto proficuo di collaborazione. Mons. Delpini assicura che non sarà un gran cancelliere che si limita ad una supervisione distratta. “Mi aspetto un aiuto e dei consigli perché apprezzo il lavoro che qui si fa e ritengo che il mio ruolo di Gran Cancelliere non sia decorativo”, poiché “forse dobbiamo domandarci come si possa governare questa macchina complessa e prestigiosa e come vi si possa studiare, preservando la gioia dell’essere insieme nella vocazione comune a servire la Chiesa”. Una Chiesa fatta di persone concrete, che si iscrivono alla Facoltà per essere aiutate a credere meglio, e di più, in un clima culturale che segue altri, tristi parametri valoriali.
“Che cosa fa il discepolo respinto? Come è giusto comportarsi nella città inospitale? C’è la tentazione di mascherarsi, per farsi accettare. Il discepolo complessato cerca le vie dell’omologazione”. Parole che pesano come macigni in un panorama milanese in cui in molti oratori si rinuncia tutt’ora a trasmettere alcuni contenuti “impopolari”, temendo un abbandono generalizzato dei ragazzi frequentanti. Ricercando la quantità al posto della qualità si è spesso alimentata la confusione e la mondanità spirituale nelle parrocchie.
Di fronte a questi problemi teologi, sacerdoti e gruppi laicali corrono il rischio di un’autoreferenzialità rinunciataria. “C’è la tentazione di ritagliarsi un angolo rassicurante, di costruirsi una fortezza in città, di isolarsi in una torre d’avorio per poter coltivare tranquilli i propri pensieri e compiacersi dell’approvazione del gruppo selezionato dei discepoli affezionati. Il pensiero è audace, ma è come una lampada sotto il moggio: non rischiara la casa, non illumina il cammino della città, perché non finisca peggio di Sodoma”, preda dei suoi stessi peccati.
Il teologo che rapporta le sue ricerche al bene della Chiesa intera, il sacerdote cosciente del Sacramento ricevuto ed il laico missionario deducono, invece, che “il mandato che Gesù affida a coloro che manda suggerisce la spiritualità di chi persevera anche di fronte al rifiuto, di chi si prende tanto a cuore la città inospitale da insistere nell’annuncio” perché Cristo è l’unico tesoro.