“Avete fatto bene, voi candidati della diocesi di Milano, a scegliere come motto: e cominciarono a far festa (Lc 15,24)”. Esordisce così mons. Mario Delpini, nell’omelia della sua prima ordinazione sacerdotale da arcivescovo di Milano, celebrazione che vede protagonisti 23 candidati diocesani e 5 confratelli del PIME. “Questa terra, infatti, questa Chiesa ambrosiana, questa umanità che ha bisogno di tutto, ha però un bisogno immenso di gioia, di festa”.
Questo mondo è triste perché ha provato a cercare la felicità lontano dal Padre. Mons. Delpini fulmina con spietatezza, a 50 anni di distanza, il falso pauperismo del Sessantotto, che invidiava chiunque perché ha smarrito punti di riferimento che solo la gerarchia di una società ben ordinata può individuare: “ci sono stati persino dei ricchi che hanno invidiato i poveri: ma com’è che questi poveri che non hanno niente, sono così contenti? Ma non so se i poveri erano contenti. Anche loro hanno invidiato i ricchi e si dicevano: questi ricchi sono veramente stupidi. Se avessi io quello che hanno loro, allora sì che sarei felice”.
La gioia del singolo credente, o dei credenti in gruppo, non può però bastare al mondo se anch’essa è determinata da fattori mondani. “Voi ordinati per il ministero, come tutta la santa Chiesa di Dio, siete uomini di preghiera che insegnano a pregare. Voi siete mandati a ripetere ai fratelli e alle sorelle che incontrate le parole di Paolo: Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche, ringraziamenti (Fil 4, 6)”.
Lo sguardo trascendente guida verso l’unica inquietudine sana che sia concessa al cattolico: non essere contenti fino a che tutti non si siano lasciati interpellare dalla parola di Dio. “Voi siete i servi dell’inquietudine. Voi siete incaricati di quella parola, di quella presenza, di quell’inquietudine che visita il figlio lontano, il figlio fallito, il figlio desolato, il figlio perso nella sua vita dissoluta per suscitare in lui la nostalgia di casa”. La parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32), letta come pericope evangelica dal pulpito del Duomo, è un trasparente ritratto dell’epoca post-moderna, condizionata da chi cerca la via del ritorno a casa, cioè la Chiesa, e da chi, dal di dentro, come il fratello maggiore si rifiuta di allargare le braccia verso il fratello che arriva rivestito degli stracci risparmiati dal peccato.
La classe 2018 è essa stessa un considerevole spaccato del mondo contemporaneo. Pochi coloro che hanno maturato la propria vocazione nell’infanzia e sono stati accettati in seminario subito dopo il diploma. Cominciano ad essere determinanti uomini di mezza età con diverse esperienze lavorative alle spalle e famiglie di provenienza segnate da dissidi e separazioni. Uno scenario che deve inevitabilmente condurre il clero ambrosiano a riflettere su quanto ancora abbiano da camminare le istituzioni deputate al discernimento ecclesiale per poter corrispondere adeguatamente alla domanda degli uomini sempre più fragili e dispersi che bussano alle sue porte.