Spesso proprio coloro che parlano di “libertà” e “liberazione” vogliono trasformarsi nei primi censori del pensiero altrui. Ossessionato dalle parole, il politicallly correct “sbianchetta” a tutto spiano, chi non sta nelle sue righe deve tacere. Mons. Mario Delpini non ha remore nell’attaccare la falsa libertà del pensiero dominante durante la Messa della Notte di Natale nel Duomo di Milano: “(…) vorremmo smentire l’insinuazione di coloro che diffondono la persuasione che gli uomini e le donne liberi sono pericolosi e mettono in discussione il potere dei potenti; vorremmo contestare le imprese di coloro che agiscono per comprimere la libertà, perché è meglio che gli uomini siano convinti, con le buone o con le cattive, a eseguire i progetti di potenti, a rendere omaggio al potere di interessi altrui, a ridursi a ingranaggi che lavorano e non pensano, a ridursi a materiale di costruzione per uno splendore che non vedranno mai”.
Non è questa la libertà che è venuto a portare il Figlio di Dio fatto uomo. Seguendo la lettera del prologo di S. Giovanni, pagina evangelica che il Rito ambrosiano assegna immancabilmente alla celebrazione della Notte Santa, mons. Delpini esclama: “noi, invece, cantiamo il nostro inno alla libertà di coloro che contemplano la luce e si lasciano sorprendere dallo stupore, l’accolgono con gratitudine e, così, diventano figli di Dio. Sono uomini e donne liberi e, perciò, possono accogliere e prendere in se stessi quella vita che Dio vuole donare”, e si trasforma in civiltà.
Si, proprio in una civiltà, che si costruisce non in un istante, ma nella fedeltà alla grazia originaria. “La liberazione, il riscatto di coloro che sono sotto la legge, può avvenire in un istante, ma l’edificazione di un popolo libero deve essere una lunga storia, tortuosa, contraddittoria, talora incerta, talora, spedita e coraggiosa, ma sempre una storia. Vorremmo ripeterci ogni giorno che questo giorno è benedetto da Dio, perché in questo giorno noi possiamo diventare ancora di più, ancora meglio, simili al Figlio”. L’arcivescovo tesse l’elogio del verbo “diventare” perché “(…) racconta del Verbo di Dio che si è fatto carne, che è entrato nella storia e che, perciò, ha benedetto il tempo e ha dato testimonianza di fedeltà fino alla fine”.
Ma per costruire ci vuole la virtù della pazienza, perché i risultati, ammonisce mons. Delpini, potrebbero non vedersi immediatamente. Si rimane fedeli al progetto divino “(…) quando l’amore può dire con sincerità di rimanere fedele nei giorni di sole e in quelli di pioggia e di nebbia; nei giorni che trascorrono e negli anni che passano”. L’amore umano deve ricalcare l’altezza di questa fedeltà. “(…) l’amore non può essere solo innamoramento, deve essere anche fedeltà; e, così, tutto ciò che è umano – la preghiera, la ricerca della verità, la risposta alla vocazione -, tutto non può essere solo momento di grazia, ma tenace perseveranza”, persino “resistenza”, perché il vento contrario tira parecchio forte.
Quello di mons. Delpini è quindi un appello alla costanza dei cristiani, al non scoraggiarsi di fronte alle molte difficoltà, perché si stanno tenacemente gettando semi per una nuova primavera cristiana. L’arcivescovo innalza un cantico a “(…) coloro che accolgono la luce e sperimentano la grazia di diventare figli di Dio, lasciandosi avvolgere dalla luce e diventando essi stessi luce” per gli altri e l’intera società.