di Michele Brambilla
Il 12 marzo l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, viene invitato a prendere la parola durante un convegno intitolato Il ruolo del giudice nella società che cambia, organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore in memoria di Rosario Livatino (1952-90), il “giudice santo” ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 del quale nel 2011 è stato aperto il processo di beatificazione. Il convegno si tiene nell’aula Pio XI dell’ateneo lombardo ed è coordinato dal direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale, Gabrio Forti. Presenziano, tra gli altri, il rettore dell’Università Cattolica, Franco Anelli, e l’assistente ecclesiastico, mons. Claudio Giuliodori.
Dalla figura di Livatino mons. Delpini trae alcune indicazioni, che ritiene valide per ogni magistrato che voglia dirsi credibile e cristiano. «La prima è la capacità del giudice di riconoscere la persona, la sua dignità e non solo il delitto», sul quale si appunta in genere tutta l’attenzione dell’opinione pubblica. La seconda è più un monito, assai doveroso in tempi di “processi mediatici”: «il giudice non cerca l’applauso del pubblico e l’approvazione degli organi di stampa. Non agisce per successo ma per coerenza» alla sua vocazione e al dettato della legge, altro criterio spesso stravolto in questi anni di sentenze orgogliosamente “creative”.
Un bravo giudice, secondo mons. Delpini, deve essere davvero imparziale (terza indicazione), ma allo stesso tempo «[…] mette al primo posto i diritti dei più deboli e non l’arroganza dei potenti» (quarta indicazione). Ad un orecchio superficiale questa asserzione potrebbe sembrare la ripetizione di uno slogan caro a Magistratura democratica, la corrente di sinistra che ha sempre sfruttato le pieghe del diritto per compiere la lotta di classe, invece la successiva quinta indicazione di mons. Delpini sgombera il campo da qualsivoglia interpretazione politica: il giudice santo, come Livatino, «[…] non persegue l’utopia, la rivoluzione, ma la giustizia possibile, il realismo», senza alcun spirito di fazione, di corpo o di vendetta sociale. E conclude: «mi sembra che seguendo la vicenda del giudice Livatino si possa incoraggiare chi tra i magistrati cristiani desidera questa vocazione alla santità. Anche voi potete diventare santi!».
Un cammino di santità, quello del giudice autenticamente cattolico, che l’arcivescovo non esita a definire «[…] un cammino fatto di discesa agli inferi e di successiva ascesa alla Gloria», poiché facendo il magistrato si toccano con mano vicende anche scabrose ed estremamente efferate, ma se le si sa trattare con gli occhi misericordiosi del Dio cristiano si possono conquistare nientemeno che la vita eterna per sé e la conversione per il reo, che può leggere in una sentenza davvero giusta lo stimolo ad un cammino di ripensamento delle proprie scelte sbagliate.