La visione cattolica del lavoro, che parte dalla preghiera, non è un’uguaglianza che livella le identità, ma una parità che valorizza.
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di Michele Brambilla
L’arcidiocesi di Milano è solita preparare spiritualmente la festa di S. Giuseppe lavoratore (1 maggio) con veglie diocesane, alle quali sono invitati specialmente gli operai. La sera del 30 aprile mons. Mario Delpini presiede una di queste veglie nella chiesa di S. Pietro a Sartirana di Merate ed esordisce così: «noi abbiamo domande, ma chi darà le risposte? Le domande riguardano il sistema economico: come funziona? Chi lo governa? Quali esiti produce? Quali correttivi si potrebbero introdurre. Abbiamo domande, ma chi darà le risposte?».
Il mondo contemporaneo è in effetti pieno di interrogativi e cerca risposte praticamente dovunque. «Intorno alle domande sono convocati gli esperti: gli economisti, gli statistici, i giuristi, i tecnici, i teorici del lavoro e della società, delle prospettive future», ma sfuggono le linee di fondo. Da parte sua «il Magistero, la tradizione del Dottrina sociale della Chiesa raccomanda delle attenzioni, garantisce dei principi, prende posizioni per difendere le categorie più vulnerabili. È giusto che si cosi, ma non per tutte le domande vi è risposta» se si rimane sul piano meramente materiale.
E’ proprio per questo che il cattolico prima di tutto prega. «Questa non è una manifestazione contro qualcuno, non un convegno di esperti, non una protesta. Può essere che la convocazione sia sentita come una pratica anacronistica: che significa pregare per il lavoro?». Per il materialista che riduce i rapporti sociali a lotta di classe è certamente inutile, ma la preghiera in realtà è il passo più necessario: non c’è infatti capolavoro umano che non venga dallo Spirito Santo. I cristiani «non sono fuori dal mondo, hanno ruolo, competenze e responsabilità. Non si sottraggono ad affrontare i rischi dell’imprenditoria, non di estraniano dall’impegno sindacale, non si dimettono dalle responsabilità economiche. I cristiani sono a fianco di tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Ma i cristiani sono convocati anche per pregare. Sono convinti che c’è bisogno di un orizzonte più ampio e di una speranza più grande per affrontare le sfide che si presentano», un orizzonte di senso complessivo. E questo lo può dare solo Chi del mondo è il Creatore.
«Gli uomini e le donne che pregano sono quelli che vivono la loro vita come risposta a una vocazione: non subiscono la vita come un destino, non trascinano la loro esistenza come una serie di coincidenze. Rispondono, invece, alla chiamata che fa della loro vita una missione, una vocazione che dà alle vicende quotidiane la gloria della storia della salvezza». Ecco allora che le doti divengono evangelicamente “talenti”. Ecco che tutta la società, una volta recuperata la dimensione trascendente, si pone al servizio dei doni che ciascuno può dare, senza appiattirli. Il credente si mette coraggiosamente in gioco perché «quando pregano i cristiani mettono a rischio se stessi. Sono convinti che la vocazione dell’umanità è a una fraternità, quindi, entrano nella lotta, nel gioco delle parti, ma non odiano mai e non seminano odio, non immaginano il ricorso alla violenza come una soluzione, guardano alla controparte con fermezza, ma con rispetto anche se ha torto. Imparano a dire, Padre nostro, quindi, Padre di tutti». Non è un’uguaglianza che livella le identità, ma una parità che valorizza.
Lunedì, 6 maggio 2016