Lo afferma l’arcivescovo di Milano durante le celebrazioni in memoria degli arcivescovi defunti, pensando anche alla parabola di “Vittorione”, laico divenuto sacerdote solo da anziano che ha speso tutta la sua vita per incrementare le missioni in Africa.
di Michele Brambilla
Il primo appuntamento successivo alle vacanze agostane è ormai da diverso tempo la commemorazione diocesana degli arcivescovi defunti. La Messa di suffragio nel Duomo di Milano viene celebrata ogni 30 agosto, memoria liturgica del beato card. Schuster (1929-54).
Nel 2019 l’1 settembre porta però con sé anche il 25° anniversario della morte di don Vittorio Pastori (1926-94), figura molto legata a Varese. Era un imprenditore rimasto celibe, che nel 1966 si vide affidare la gestione degli affari economici della locale basilica di S. Vittore da parte dell’allora prevosto mons. Enrico Manfredini (1922-83), amico del servo di Dio mons. Luigi Giussani (1922-2005). “Vittorione” seguì mons. Manfredini anche quando egli salì sulle cattedre di Piacenza (1969) e di Bologna (1983), dove entrò in contatto con alcuni vescovi africani. Iniziò un infaticabile lavoro di appoggio alle missioni, che culminò nell’ordinazione sacerdotale (1984) per mano del vescovo di Gulu (Uganda). Alle commemorazioni ufficiali a Varese, il 1 settembre, partecipa anche l’attuale vescovo di Piacenza mons. Gianni Ambrosio.
Nell’omelia per il 30 agosto, mons. Mario Delpini dice che «si discute molto della questione del frutto promesso da Gesù: chi rimane in me e io in lui porta molto frutto (Gv 15, 5); perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga (Gv 15,16). Quali aspettative sono generate da questa promessa? come si può riconoscere l’affidabilità di questa promessa?». L’errore, infatti, è fermarsi al dato quantitativo delle persone convertite. «È», infatti, «tentazione molto diffusa perché è coerente con la sensibilità contemporanea che tende a valutare tutto con criteri quantitativi: che si tratti di bilanci aziendali o dell’economia di una nazione o dell’esito di una iniziativa tutto si misura». Tuttavia, «l’immaginazione spontanea orienta anche ad aspettarsi un successo qualitativo», ma quali sarebbero i criteri per valutare tale qualità?
Si deve convenire che «il frutto della missione fedele al mandato di Gesù non è il successo, non è un risultato quantitativo (se la Chiesa milanese sia cresciuta di numero), né qualitativo (se la Chiesa milanese goda di prestigio e autorevolezza). Il frutto è piuttosto un frutto spirituale, cioè che si continui a compiere l’opera di Dio, secondo quanto dice Gesù: in verità in verità vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre (Gv 14,12)». L’unico criterio per valutare l’azione di un cristiano, vescovo, prete o laico che sia, è quindi l’aderenza al modello di Cristo. «Ecco l’opera di Dio: che in mezzo agli uomini continui a esserci un segno della sua presenza, una parola di testimonianza della presenza di Gesù, una comunità che abiti il tempo con lo stile di Gesù in attesa della sua venuta». La comunità cristiana è quindi edificata dalla cooperazione dei suoi “santi”, prendendo questo vocabolo come “categoria larga”, che comprende cioè anche quanti non balzano mai agli onori delle cronache “maggiori” ma diventano ugualmente figure di riferimento.
Lunedì, 02 settembre 2019