Cosa ci ricordano le oltre 3400 statue di santi e beati presenti nel Duomo di Milano? Che il Signore non vede l’ora di vedere anche quelle dei testimoni del terzo millennio.
di Michele Brambilla
«Non esiste, forse nel mondo intero, una chiesa più adatta del nostro Duomo per celebrare questa Solennità», dice mons. Mario Delpini nell’omelia pronunciata nella cattedrale di Milano il 1 novembre, festa di Tutti i Santi, «perché il numero delle statue che ricordano santi e beati – circa 3400 – è impressionate. E noi qui ci sentiamo, quasi fisicamente, presenti nella comunione dei Santi», circondati da tante presenze amiche che illuminano e sostengono il cammino terreno.
«Questa festa», prosegue l’arcivescovo, «non è qualcosa di cui vantarci, ma è la responsabilità di diventare anche noi santi secondo il modello che ci è stato proposto, divenendo segno che il Regno di Dio è dentro la storia umana e compiendolo anche con il nostro impegno a seguire il Signore». Una delle prove a favore della religione cattolica è proprio, affermano i teologi, lo “spettacolo della santità”. Uno spettacolo, però, che deve proseguire anche nel terzo millennio, del quale mons. Delpini attacca frontalmente il vocabolario impoverito. «Questa festa che celebriamo è l’occasione per recuperare parole censurate, messe, forse, tra i rifiuti per l’imbarazzo di sentirci antiquati» in un contesto che corre senza una meta che non sia il business. «Ci sono parole che risultano inutili, antiquate, come fossero vecchie cianfrusaglie: non si sa più da dove vengono, non si sa a che cosa servono. Può capitare persino che sia imbarazzante tenere in bocca certe parole fuori moda che, perciò, finiscono in discarica», e sono “Dio”, “anima”, “giudizio”, “vita eterna”. Senza queste parole, però, i discorsi umani hanno un respiro troppo corto, non sanno più interpretare neppure la realtà che li circonda. «Per esempio, come si chiama», incalza mons. Delpini, «l’inquietudine che lascia sempre insoddisfatti, la sete di un oltre e di un altrove che si avverte come una nostalgia? Come si chiama quell’intuizione che si potrebbe vedere oltre la banalità e l’artificioso spettacolo che eccita e seduce e che, poi, delude, lasciando solo una vergogna?». Lo striminzito vocabolario postmoderno, continuamente epurato dal politically correct, non sa rispondere.
La festa di Tutti i Santi non è, allora, solo una bella e consolante celebrazione, ma, secondo l’arcivescovo, uno sprone molto impegnativo per i battezzati. In un mondo che tace sulle questioni fondamentali dell’esistenza, entra in campo il Vangelo “incarnato” dei cattolici che lo testimoniano. «Riceviamo così la parola che rivela che non siamo fatti per una solitudine arrabbiata, ma per cercare le vie della riconciliazione fino al perdono; non siamo fatti per un egoismo indifferente e spietato, ma per una premura capace di soccorrere, per una generosità mite e sorridente. Siamo fatti per amare perché siamo stati amati».
Lunedì, 04 novembre 2019
Michele Brambilla
Michele Brambilla, nato a Monza nel 1987, laureato in Storia presso l'Università Cattolica di Milano, alunno dell'Istituto di Scienze Religiose Paolo VI della stessa città. Amante della Liturgia e di storia...ovviamente ambrosiana.