Mons. Delpini celebra una Messa in Duomo per le vittime del contagio e si reca personalmente al Policlinico per impartire la benedizione eucaristica ai medici, ai malati e ai defunti.
di Michele Brambilla
La solennità dell’Annunciazione del Signore, che commemora l’apparizione dell’arcangelo san Gabriele a Maria per annunciarle che sarebbe diventata la madre di Gesù, rappresenta normalmente uno squarcio di luce dorata nel lento fluire delle ferie di Quaresima.
La mattina del 25 marzo 2020, tuttavia, è davvero difficile avvertire un clima di festa a Milano. Ci si mette pure il maltempo, con un vento gelido che sferza, inquietante metafora, le prime gemme sugli alberi. Mons. Mario Delpini sale i gradini del presbiterio del Duomo avendo accanto solo l’arciprete e il vicario generale dell’arcidiocesi. È vestito di bianco perché così impone la liturgia, ma quello che officia non è un rito festoso, bensì una solenne Messa da requiem per i tanti deceduti che in quelle ore si accumulano nelle camere mortuarie senza poter ricevere l’ultimo saluto da parte dei loro cari. L’arcivescovo li ricorda, ricorda tutte le famiglie che vivono il dolore di un distacco, e per loro invoca la presenza di quello stesso angelo che parlò, un giorno, alla Madonna: «manda, Signore, l’angelo dell’annunciazione! Abbiamo bisogno di una annunciazione, di un angelo di Dio che entri nelle case della solitudine smarrita, della convivenza noiosa, della frustrazione prolungata, del soffrire solitario, dell’impegno frenetico e logorante, del morire senza una carezza. […] Manda, Signore, l’angelo della annunciazione per dare una carezza a quelli che sono morti in ospedale: noi non abbiamo potuto stringere la mano nel momento estremo, non ci è stato possibile raccogliere le ultime confidenze, scambiare un bacio per perdonarci».
Un dolore di cui mons. Delpini percepisce tutta la forza dirompente: «manda, Signore, l’angelo della annunciazione e ci sia una luce, là dove noi vediamo solo un abisso insondabile e si apra una porta là dove noi avvertiamo solo una irrimediabile chiusura», perché da quanto Cristo è morto e risorto la barriera della morte non è più un muro invalicabile, ma l’ingresso nella vita eterna. «Ciascuno dei nostri morti si senta trasfigurato dalla grazia, la grazia non meritata, la grazia che alcuni non hanno neppure chiesto, la grazia che si effonde anche oltre i gesti della Chiesa, anche oltre la prossimità dei familiari. Ciascuno dei nostri morti si senta chiamato con un nome nuovo: avvolta dalla grazia, riempita dalla grazia, piena di grazia», ripete pensando alla Madonna.
Mons. Delpini non si limita a recitare le litanie dei Santi ai piedi dell’altare maggiore. Il 25 marzo sarebbe in teoria la Festa del Perdono, vale a dire la festa patronale della “Ca’ Granda”, il Policlinico-Ospedale Maggiore di Milano di cui l’arcivescovo è parroco onorario, pertanto nel pomeriggio compie un atto molto coraggioso. Si reca infatti di persona al Policlinico, ove percorre i viali dell’ospedale stringendo tra le mani l’ostensorio con il SS. Sacramento, con il quale benedice i medici, i degenti e le tante salme. L’immagine dell’arcivescovo che avanza nei reparti con l’ostensorio e la mascherina sul volto entrerà certamente nella storia perché richiama un’altra immagine simbolo: san Carlo Borromeo (1538-1584) che percorre le strade di Milano appestata impugnando il Santo Chiodo: «la peste infuria e devasta la misera Milano, dolce e animoso come madre resti e gli sventurati soccorri» (liturgia ambrosiana delle Ore, inno della solennità di S. Carlo Borromeo, V strofa).
Lunedì, 30 marzo 2020