Gli errori del passato, la speranza per il futuro.
di Michele Brambilla
Lunedì 30 marzo mons. Mario Delpini benedice i padiglioni di Fiera Milano-City, dove è stato allestito l’ospedale riservato ai malati di COVID-19, e dice: «facciamo l’elogio dell’impresa. Facciamo l’elogio di quel modo di stare al mondo che avverte la responsabilità di renderlo migliore, delle istituzioni, delle persone che hanno responsabilità dirigenziali, di tutti i collaboratori, i dipendenti, i consulenti, di quelli che sentono il dovere personale di rimediare ai disastri, di attivarsi di fronte ai bisogni» senza accampare delle scuse o indugiare nella polemica sterile. Quello dell’arcivescovo vuole essere un elogio della competenza dimostrata dalla Lombardia in questo drammatico frangente, ma comincia a riflettere anche sul “dopo”, poiché ammonisce che non basta la tecnica se manca la virtus.
È il leitmotiv che attraversa una lettera che mons. Delpini dirama online alla vigilia della Settimana Santa. Essa contiene le direttive necessarie per la celebrazione dei riti solenni tradizionali nel contesto della quarantena, prorogata fino al 13 aprile, ma soprattutto una disanima di ciò che non andava nella Milano “pre-virus” e dei valori che la pandemia ha in qualche modo fatto riscoprire. Il primo è il senso del limite: «i conti aperti, i lavori incompiuti, gli affetti sospesi insinuano una specie di terrore: “Sì, lo so che viene la morte, ma non adesso, per favore! Non adesso, ti prego; non adesso!”. Ma si intuisce che non basta avere un compito da svolgere per convincere la morte a passare oltre il numero civico di casa mia. La morte è così vicina e non ci pensavamo».
Anche la Messa era ridotta, ormai, ad un “rumore di fondo”: le priorità erano altre, gli stessi credenti la consideravano un’opportunità quasi scontata. «In questo tempo», osserva l’arcivescovo, «è molto cambiato l’atteggiamento verso il religioso: ne è nata una qualche nostalgia per chi non ci pensava più e persino quelli che non sanno dove siano le chiese si sono interessati per sapere se siano aperte o chiuse». Si è compreso quanto la vita sacramentale sia fondamentale per sostenere una comunità nel suo cammino terreno e come la libertà di culto sia una questione tutt’altro che periferica. «L’esito è che suonano stonate le certezze della città secolare che si costruiva orgogliosa e vincente a prescindere da Dio», ma anche al cattolico “medio” è richiesto un esame di coscienza sul modo con il quale finora si è approcciato al sacro. «Sì, sono gradite la premura, la parola buona, la frase del Vangelo; sì, aiuta la proposta di non perdere tempo, di rendersi utili in casa e dove si può. Sì, tutto vero. Ma trovarsi per la celebrazione della messa, cantare, pregare, stringere le mani amiche nel segno della pace, ricevere la comunione è tutt’altro. Di questo sentiamo la mancanza», perché la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia è qualitativamente superiore a qualsiasi altra presenza spirituale, cosa che non era più così tanto chiara in molte iniziative pastorali eccessivamente “bibliocentriche” organizzate nelle parrocchie o nei decanati. Lo stato di necessità ha permesso pure di rivalutare le pratiche e i sentimenti della pietà popolare, non sempre compresi e valorizzati negli anni precedenti.
Il coronavirus, insomma, ha insegnato nuovamente alla cittadinanza nel suo complesso che non esiste la carne senza lo Spirito, e al mondo cattolico che non è possibile un’autentica vita spirituale senza la carne dei Sacramenti e la dimensione comunitaria della Chiesa.
Lunedì, 6 aprile 2020