Mons. Delpini presiede le ordinazioni sacerdotali dei missionari del PIME, testimoni di Cristo in un mondo che è preda delle false alternative del fideismo e del razionalismo.
di Michele Brambilla
Il 15 giugno mons. Mario Delpini si reca a Monza, presso il Seminario teologico del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), per ordinare sacerdoti 5 missionari. La data non è scelta a caso: il 15 giugno ricorre la memoria liturgica del beato Clemente Vismara (1897-1988), missionario per 70 anni in Birmania. L’altare per la celebrazione è allestito nel cortile del Seminario, in maniera tale da rispettare al massimo le misure di sicurezza vigenti.
Come ricorda lo stesso arcivescovo di Milano all’inizio dell’omelia, «il mondo è malato», ma non solo di coronavirus: «mai, forse, questa condizione di desolazione e angoscia è risultata evidente come nel nostro tempo». Mons. Delpini respinge, però, le facili interpretazioni apocalittiche o catastrofiste: «in verità ogni tempo è stato sentito come il più tribolato dai contemporanei inclini a diagnosi catastrofiche e a invettive risentite. Il mondo è malato. È sempre stato malato, ma la coscienza del nord del mondo percepisce in modo particolarmente drammatico la situazione perché avverte la sconfitta della propria presunzione» neo-positivista, che si illudeva di poter controllare scientificamente persino la morte.
La pandemia non deve far dimenticare altri tipi di malessere che affliggono il mondo. L’arcivescovo si riferisce soprattutto alle malattie spirituali, che condensa nell’immagine biblica dei “giudei” e dei “greci”. C’è, infatti, un tipo di fideismo che concepisce i credenti come una casta di privilegiati e cerca spasmodicamente il miracolo. In realtà «l’esito di questa aspettativa è il risentimento verso Dio che non fa niente per salvare, che ritarda nell’ascoltare la preghiera, che sembra indifferente alla sorte del suo popolo». Dall’altro lato ci sono i “greci”, coloro che confidano unicamente nelle proprie risorse intellettuali: «non hanno bisogno di pregare, ma solo di studiare, di reperire risorse per la ricerca. Non hanno interesse alla vicende delle persone, ma solo ai risultati, ai numeri, ad arrivare primi al traguardo. Guardano con disprezzo ai percorsi dei devoti e sono indifferenti alle sofferenze, finché la malattia non entra in casa loro e la morte non li sfiora da vicino», costringendoli a guardare al mondo con occhi diversi.
I consacrati e i laici cattolici devono assolutamente evitare questi due scogli: «i candidati consacrati con l’unzione sono mandati a portare il lieto annuncio ai miseri. Ma la strada che devono percorrere è quella di Gesù, che Paolo chiama la debolezza di Dio» perché «noi predichiamo Cristo crocifisso: la risposta all’invocazione di salvezza che il mondo rivolge a Dio senza conoscerlo è Gesù e Gesù crocifisso. La debolezza di Dio si rivela salvezza perché si pone là dove la vita è sconfitta e apre l’ingresso alla gloria».
In questo modo i cattolici parleranno una “lingua nuova”: «la lingua che tutti capiscono è quella dell’amore» e l’amore autentico lo ha testimoniato Gesù stesso morendo e risorgendo per noi. Riferendosi al crisma che l’ordinando riceve sulle mani, mons. Delpini afferma: «l’annuncio del Vangelo è la buona notizia che sparge l’olio di letizia e chiede a ciascuno l’adesione della fede: chi crederà e sarà battezzato sarà salvato… La debolezza di Dio si presenta alla libertà di ciascuno, come colui che sta alla porta e bussa. Se qualcuno gli apre entrerà per trasfigurare la vita mortale nella vita eterna».
Lunedì, 22 giugno 2020