Mons. Delpini insegna, sulla scorta di san José Maria Escrivà de Balaguer, a non cerca la santità in un ipotetico “altrove”, ma nella nostra quotidianità.
di Michele Brambilla
La sera del 26 giugno mons. Mario Delpini celebra la Messa nella memoria liturgica di san José Maria Escrivà de Balaguer (1902-75), fondatore dell’Opus Dei. Lo fa nella chiesa parrocchiale di S. Gioachimo, nota in Alleanza Cattolica per aver ospitato le esequie del militante Enzo Peserico (1959-2008).
Le parole dell’omelia di mons. Delpini descrivono con grande precisione i sentimenti dell’uomo post-moderno: «si insinua l’impressione di insufficienza, di incompiutezza, persino di delusione e frustrazione. “Sì, la cose vanno bene. Sì, sono contento. Sì, cerco di fare bene. Ma mi manca qualche cosa”». Persino «il bene che faccio mi sembra così poco! Le persone che amo non sono così perfette, non mi danno quella felicità che mi aspettavo». Allora «in ogni età della vita, in ogni situazione familiare, professionale, in ogni condizione si sperimenta l’insinuarsi del grigiore dell’insoddisfazione. Mi manca qualche cosa».
C’è un pericolo, che l’arcivescovo denuncia: «l’insoddisfazione talora rende irrequieti, talora rassegnati. I rassegnati cercano altrove, qualche compensazione. Gli irrequieti cercano altrove, un salto di qualità, una vita nuova, diversa». Mons. Delpini intuisce che «si può leggere anche così la vocazione dei primi discepoli. Insoddisfatti del duro lavoro di pescatori, talora così insoddisfacente, raccolgono l’invito di Gesù» perché cercavano qualcosa di più “eccitante”. «Si è così generata la convinzione che per essere veramente santi, per portare a compimento quello di cui si sente la mancanza è necessario un altrove», una vita completamente diversa dalla nostra quotidianità.
La spiritualità dell’Opus Dei insegna, invece, che Dio ci attende proprio nelle nostre attività quotidiane, perché, dice l’arcivescovo, «[…] non è altrove che troveremo quello che non troviamo là dove abbiamo scelto di dimorare, non è un’altra persona né un’altra comunità che può darci quello che non troviamo nei rapporti di cui abbiamo la responsabilità». L’evangelico “prendere il largo” «non significa cercare un altro lago, ma aprire gli occhi per riconoscere l’ampiezza, l’altezza, la profondità che sono custodite nel frammento» che viviamo. Ad essere sinceri, «nessuno vive dappertutto, nessuno ama tutti, nessuno fa tutto. A ciascuno è toccato un frammento di vita, un pezzetto del giardino piantato da Dio in Eden, a oriente. Un piccolo frammento, ma se vivi nel frammento obbedendo alla parola di Gesù le tue reti non basteranno per la sovrabbondanza della pesca».
Non bisogna operare con lo spirito dello schiavo, che fa le cose giusto per dovere: «impariamo», piuttosto, «a ospitare lo Spirito che rende figli», poiché «lo Spirito che rende figli mette nella condizione del Figlio, partecipi della sua vita, liberi di donarsi per amore, fino al sacrificio, non costretti da un comandamento, ma persuasi dall’attrattiva della comunione, partecipi della sua gloria», anche mentre si beve un caffè con l’amico o si compila il modulo 730. «Lo Spirito che rende figli predispone», infatti, «a essere eredi di Dio, coeredi di Cristo: la promessa della vita eterna non è la rassicurazione di un lieto fine che ripaghi delle frustrazioni, delle insoddisfazioni, di quello che è mancato, ma piuttosto l’offerta di un compimento che fin d’ora offre la gioia invincibile nella forma della speranza».
Lunedì, 29 giugno 2020