Mons. Delpini esorta i giovani a guarire un mondo afflitto non solamente dal Covid-19. Le malattie più profonde dell’Occidente sono, infatti, culturali
di Michele Brambilla
Mons. Mario Delpini incontra nel giro di pochi giorni i preadolescenti dei “Cavalieri del Graal” e gli studenti universitari della Statale. I primi, che sono un gruppo di spiritualità della grande famiglia di Comunione e Liberazione, si rifanno al modello cavalleresco e, nel pomeriggio del 29 maggio, si radunano in Duomo con i loro bellissimi stendardi. Ai ragazzi ciellini l’arcivescovo chiede di non essere i “panchinari” della vita. «Io non ho una ricetta per la felicità», il desiderio per eccellenza di questi tempi, «ma so che la ricetta di Dio si compone di 2 parole: tu sei amato di un amore che ti rende capace di amare. Per questo la tua vita è una vocazione a farti dono. Non guardarti allo specchio, ma guarda Gesù che te lo dice» e diventa missionario della vera felicità.
Anche i giovani universitari, raccolti il 1 giugno nell’aula magna dell’Università Statale, si chiedono come essere protagonisti del loro futuro. Mons. Delpini formula «una constatazione, su cui è facile convenire»: il mondo contemporaneo è malato, ma non solo di Covid-19. «Oggi, serpeggia l’atteggiamento di chi pensa che non tocchi a lui. Eppure, l’esperienza del Covid ha dimostrato che rivendicare la logica dell’individualismo è un’illusione», afferma l’arcivescovo: «mi faccio voce del cristianesimo lombardo che è sempre stato a proprio agio nella storia, interpretando la situazione come occasione, non come fatalità, perché ritiene che in qualunque situazione sia possibile scegliere ed esercitare la libertà. Questo fa dei cristiani dei seminatori di speranza» anche dopo una pandemia, perché «il cristiano, di fronte all’umanità che geme, si sente chiamato e interpellato; vive la sfida come una provocazione per mettere a frutto i propri talenti e risorse».
Rievocando il Discorso alla città 2020, mons. Delpini ricorda: «ho iniziato il “Discorso alla Città” con una citazione del profeta Geremia che, in una Gerusalemme assediata da Nabucodonosor, decide di comprare un campo, indicando che ci sono buone ragioni per sperare. La speranza cristiana non è l’aspettativa o la previsione, è la risposta a una promessa che viene da Dio. Questo è l’antidoto più convincente contro due grandi insidie. Anzitutto, l’individualismo che vede il singolo come criterio del giudizio, di un bene e male che hanno riferimento solo al desiderio personale, per cui la società non ha più figli e desideri. Un individualismo», ammette senza mezzi termini, «che orienta la civiltà occidentale al suicidio. Inoltre, vi è la nostalgia di un passato in cui è preferibile tornare schiavi perché avventurarsi verso la terra promessa e il deserto è troppo pericoloso»: si tratta della ricerca di pseudo-soluzioni che provengono dalle ideologie più nefaste del Novecento, presentate ancora da certi intellettuali come un “progresso”.
L’arcivescovo si scaglia, in particolare, contro coloro che attentano all’integrità della famiglia naturale: «nonostante molte ideologie sentano il tema-famiglia con una sorta di allergia, proprio questa tragedia ha dimostrato come la famiglia sia il luogo dove guarire tanti mali. Tocca a noi tutti insieme promuoverla e proteggerla». Insomma, «io voglio esortarvi a essere gente che investe sul futuro, non perché ha fatto previsioni che ne avrà un vantaggio, ma perché crede a una promessa affidabile e a una responsabilità», in poche parole ad una vocazione.
Lunedì, 7 giugno 2021