Ne parla l’arcivescovo presso il carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano
di Michele Brambilla
Il 22 luglio mons. Mario Delpini è invitato ad un convegno dedicato al disagio giovanile. L’incontro si tiene presso l’Istituto di pena “Cesare Beccaria”, il carcere minorile di Milano. Non è una criminalizzazione tout-court dei ragazzi problematici, ma non si sottovalutano neppure i segnali (ad es. le risse e i pestaggi “di massa”) di profondo malessere socio-culturale che stanno emergendo in questi mesi di pandemia.
L’arcivescovo parla di «progetto speranza»: attorno ai giovani ci deve essere un’alleanza educativa di tutte le istituzioni preposte. Non è la prima volta che lo dice, ma in questo caso osserva che «l’ambiente degradato degrada il giovane, che se vive in un luogo dove non è vi è rispetto gli uni per gli altri e per le cose comuni, porta a non apprezzare né se stessi, né gli altri, né le cose». In un’epoca nella quale per “ambiente” si intendono esclusivamente e ossessivamente piante e animali, mons. Delpini solleva la grande questione del contesto sociale, ovvero dell’ambiente umano, nella formazione della gioventù e fa un elogio dei progetti di reinserimento che il “Beccaria” porta avanti: «qui la cura è quella di migliorare l’ambiente, come fanno i progetti per il “Beccaria”, coinvolgendo i ragazzi stessi a collaborare per restituire dignità all’ambiente in cui vivono. Così, costruendo qualcosa di bello, possono imparare a apprezzarlo».
Il coinvolgimento del ragazzo è un elemento fondamentale della pedagogia degli oratori. La Grazia perfeziona la natura senza eliminarla, pertanto l’arcivescovo mette in guardia da uno sradicamento completo del soggetto educato: «c’è una ricerca delle cause che riconduce la trasgressione in età giovanile alle radici, con una sorta di predestinazione dovuta alla famiglia e all’ambiente in cui un ragazzo nasce. Le radici sono, dunque, in un terreno inquinato. La cura, in tale senso, potrebbe essere interpretata come uno sradicare, togliendo le persone dall’ambiente in cui si nutrono di impostazioni sbagliate della vita», ma si colpiscono anche dimensioni profonde, ineliminabili, dell’individuo. L’idea che l’uomo sia riprogrammabile a piacimento, come un computer, è un vecchio mito illuminista. Mons. Delpini ammonisce: «talvolta, si è costretti a sradicare per cercare spazi più propizi, ma sappiamo come sia un rimedio relativo – sempre doloroso – e non automaticamente risolutivo», perché l’identità della persona non si costruisce a tavolino.
Meglio creare attorno al giovane un ambiente sano, che trasmetta valori positivi per osmosi: «per ripartire, per gettare un ponte tra “dentro” e “fuori”, – spiega -, è necessario dare ragioni alla speranza e credo che una comunità accogliente sia un nodo determinante. Noi adulti dobbiamo riconoscere di essere in debito con la generazione giovanile e dovremmo chiederci come essere testimoni di una speranza promettente che dice che vale la pena diventare adulti assumendosi responsabilità, mettendo a frutto i talenti per il bene proprio e quello altrui».
La “terapia” della speranza riguarda sia i minori carcerati che la gioventù nella sua generalità: «questa è una speranza che comprende un futuro più grande della previsione, immaginando un compimento della vita. La buona volontà delle istituzioni, dei Corpi intermedi, delle Fondazioni devono indicare questo».
Lunedì, 26 luglio 2021