Come dice l’arcivescovo, «la spiritualità dell’arbitro si espone, secondo la parola di Gesù: risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli»
di Michele Brambilla
Riprende il campionato di calcio. Per di più, l’Associazione Italiana Arbitri (AIA) festeggia a Milano i 110 anni dalla sua istituzione con una Messa in Duomo, celebrata alle 11.00 del 27 agosto da mons. Mario Delpini. Il convegno si svolge, invece, all’Università Cattolica.
L’arcivescovo, da sempre sostenitore delle attività sportive in oratorio, nell’omelia esordisce ricordando che «lo spettatore, come l’arbitro, vede tutta la partita. Lo spettatore, come l’arbitro, conosce tutte le regole del gioco. Ma l’arbitro si prende la responsabilità delle decisioni, lo spettatore si limita a guardare, criticare, applaudire». La posizione dell’arbitro è di per se stessa al centro dell’attenzione: «la spiritualità dell’arbitro si espone, secondo la parola di Gesù: “risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”». Un tipo di esposizione, quindi, molto particolare, che spesso è suo malgrado “crocifissa” dai tifosi. Gli spettatori della partita vorrebbero un arbitro più preciso del VAR, ma l’arbitro è un uomo, non un computer. Ciononostante, «la spiritualità dell’arbitro è di essere presenza che difende la giustizia e mette pace», o almeno ci prova, spesso da solo: «i giocatori, come l’arbitro, conoscono le regole del gioco. I giocatori, come l’arbitro, sono in campo e partecipano a tutta la partita. Ma l’arbitro è da solo, i giocatori sono in squadra; l’arbitro è presente per assicurare il rispetto delle regole e non deve decidere chi vince, i giocatori decidono chi vince e per vincere non sempre rispettano le regole, senza l’uno o l’altro giocatore la partita può anche andare avanti, senza l’arbitro non è possibile».
La partita può essere presa a metafora della vita, così come l’arbitro assume sembianze “cristiche”. L’omelia per gli arbitri si arricchisce di altri spunti, che vanno oltre la contingenza dell’associazione alla quale si rivolge: «i giornalisti, come l’arbitro, conoscono le regole del gioco; i giornalisti, come l’arbitro, vedono tutta la partita. Ma l’arbitro deve decidere subito che cosa fare e ha un ruolo difficile e talora decisivo in una gara, i giornalisti possono chiacchierare e scrivere per una settimana, ma le loro parole sono facili e non decidono niente; i giornalisti possono riempire pagine di accuse e insinuazioni, l’arbitro non può difendersi e si astiene dai commenti». Non è così anche al di fuori dell’ambito sportivo, specie nei riguardi della Chiesa? Ecco riemergere, allora, la domanda sulla Verità: nello sport, così come nella vita, la sovranità appartiene al Signore, affinché «ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri».
«Tutti hanno visto la stessa partita», osserva l’arcivescovo: «tutti, prima o poi passano ad altro», con la medesima superficialità con la quale oggi si trattano anche le questioni più serie. «Ma gli umori della gente dipendono dal risultato della partita, l’umore dell’arbitro dipende dalla fierezza di essere stato a servizio di un gioco regolare», ovvero di aver fatto rispettare le regole in un piccolo cosmo che è spesso specchio del macrocosmo esterno, nel quale il rapporto con le norme, specie quelle morali, è ambivalente. «La spiritualità dell’arbitro è», allora, molto cristianamente «quella del servo». Vale, secondo noi, anche per il cattolico che arbitro non è, ma che è costretto ugualmente a vivere in un contesto culturale pieno di “primedonne” rancorose.
Lunedì, 30 agosto 2021