L’arcivescovo scrive ai capitani delle società sportive milanesi, riconoscendone il ruolo di “custodia” nei confronti dei ragazzi e di valori importanti
di Michele Brambilla
«Cara Giulia, caro Marco»: inizia così, con due destinatari che rappresentano l’intera categoria, la lettera di mons. Mario Delpini ai capitani delle società sportive, che sente particolarmente vicini nel grande compito di educare. Certo, «io non ho mai praticato sport ad alti livelli. Ma ho sempre giocato. A mio modo sono anch’io uno sportivo. Credo che fare sport, soprattutto quando si è più giovani, sia una cosa molto importante. Ti aiuta a crescere e a capire qualcosa della vita».
«Come sappiamo bene, il capitano serve per regolamento, perché è l’unico che può parlare con l’arbitro in campo, perché è quello che deve coordinare la squadra nelle operazioni preliminari al gioco, perché è quello che comunica e decide a nome della squadra. Questi», osserva, «non sono solo accorgimenti tecnici, ma sono tutte operazioni che indicano come la figura del capitano sia chiamata ad essere un vero riferimento per la squadra. Per essere un buon riferimento è indispensabile essere corretti nel gioco e conoscere le regole. Ma serve in realtà molto di più: ci vuole passione e cura verso gli altri».
La cura per gli altri si raggiunge attraverso tre accorgimenti. «Il capitano è custode del gruppo: tiene in modo particolare al fatto che ogni compagno e compagna di squadra stia bene nel gruppo. Non si occupa solo dei più bravi o di quelli con cui preferisce giocare, ma si fa prossimo a ciascuno, anzi, oserei dire, in modo speciale a quelli che giocano meno», ammonisce l’arcivescovo. Inoltre, «il capitano è custode del lavoro: è il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene. Sa custodire il valore della fatica e del sacrificarsi nell’impegno e nella costanza e sa tenere la squadra anche quando si perde. È il capitano che aiuta la squadra a superare l’egoismo e le ambizioni personali» creando comunione. Allora «il capitano è custode della resilienza: nei momenti più difficili e quando le cose non vanno come devono andare, sa trovare lo sguardo più profondo per aiutare sé stesso e i compagni a dare il meglio e a ripartire con speranza. Non permette che i suoi amici si scoraggino. In caso di sconfitta, è inutile cercare il colpevole da accusare, serve invece imparare quali errori si devono evitare» per raggiungere il risultato.
«Il capitano», pertanto, «è quello che ricomincia sempre da capo e ricorda sempre che è più importante essere fiduciosi che essere imbattibili. Ecco che cosa significa custodire: non escludere nessuno, non selezionare ma includere» anche quello più scarso, perché l’importante è edificare la comunità, il futuro. L’augurio è: «cari Giulia e Marco, se siete capitani significa che avete meritato la stima di chi ha la responsabilità della squadra. Mi congratulo con voi. E vorrei dirvi che mi fido di voi. So che siete capaci di amare. Custodire è un modo di amare. Trattate con cura il vostro sport e gli amici con cui lo praticate», per ottenere, assieme alla vittoria sul campo, la vita eterna.
Lunedì, 31 gennaio 2022