Il sacerdote come medico delle anime
di Michele Brambilla
La mattina del 14 aprile, Giovedì Santo, mons. Mario Delpini presiede come sempre la Messa crismale. Molto corposa l’omelia, che inizia con la constatazione che «l’umanità malata abita una terra malata» principalmente nello spirito. Il Covid-19 non può essere più convocato come alibi per tutto, perché «ci sono uomini e donne dell’umanità malata che non ammettono di essere malati. Noi siamo forti, noi siamo invincibili, non abbiamo paura di nessuno, noi abbiamo nelle nostre mani le sorti dell’umanità. Noi siamo irraggiungibili dalla malattia. Noi siamo i più potenti e perciò domineremo il mondo», questo perché non si accorgono di avere l’anima soffocata dallo zolfo del delirio di onnipotenza, lo stesso che induce a quest’altro pensiero: «non vale la pena di vivere se non si è sempre giovani, sani, belli: meglio morire che vivere. Vogliono morire. Questa vita malata, insidiata da ogni parte, faticosa e dolorosa non merita di essere vissuta, né di essere donata. Non sopportano i bambini e non sopportano di essere padri e madri e dare un futuro all’umanità malata. Chiamano la morte e vogliono morire» abbattendo le colonne della sala, come Sansone durante il banchetto dei Filistei (Gdc 16,25-30).
“Fine vita” e crisi demografica hanno la stessa radice pseudo-culturale e sono mali che non possono di certo chiamare in causa la pandemia. A queste forze si contrappongono coloro che, come è scritto della Lettera di Giacomo, suggeriscono: «chi è malato, chiami presso di sé i presbiteri della Chiesa ed essi preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore solleverà il malato e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (Gc 5,14-15). «E i presbiteri», come dice l’arcivescovo, «vanno», cioè adempiono fino in fondo il loro ministero di consolatori dei corpi e delle anime in nome del Signore Gesù. «Voi siete andati», ripete rivolgendosi ai tantissimi sacerdoti giunti in Duomo per il rito solenne, «perché ancora oggi, come allora “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri” (Mc 6,7) e ancora oggi, come allora, “essi partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano” (Mc 6,12-13). Siete stati mandati e siete partiti, per obbedire al Signore, per portare una parola di conversione e una medicina di guarigione: per questo siate benedetti, fratelli» nel sacerdozio e nell’episcopato, per non parlare dei laicato, chiamato ad essere missionario negli ambienti di vita, introducendovi un’antropologia antica ma, agli occhi del mondo, sempre nuova.
Il sacerdote, il missionario del terzo millennio non sono privi delle ferite dei loro contemporanei. «Anche voi, malati, avete chiamato i confratelli, come suggerisce Giacomo. E noi siamo qui oggi», dice mons. Delpini, «per celebrare la gratitudine per i presbiteri e i diaconi che si sono presi cura dei confratelli, siamo qui per celebrare il proposito di essere solleciti tutti per tutti, per pregare gli uni per gli altri». L’arcivescovo ricorda quindi, ancora una volta, che la carità ad extra deve necessariamente coniugarsi con la carità ad intra, perché gli uomini siano attratti a Cristo da una comunione visibile, che rende visualmente evidente e concretamente efficace la Grazia invisibile.
Lunedì, 18 aprile 2022