L’arcivescovo e il tema delicato, ma attualissimo, della sofferenza del malato, in un convegno all’ospedale “Gaetano Pini” di Milano
di Michele Brambilla
Il 20 maggio mons. Mario Delpini partecipa ad un convegno presso l’ospedale milanese “Gaetano Pini”, eccellenza nella cura dei traumi e dei tumori infantili. L’arcivescovo, parlando al Pini, non si sottrae alle domande del personale medico e dei piccoli degenti del reparto pediatrico.
A chi gli chiede se la sofferenza abbia un senso, mons. Delpini risponde che «questa domanda mi sembra inevitabile per chi, ogni giorno, vive accanto ai malati. Per me, come prete, è ulteriormente provocatoria, perché quando la malattia è grave e si prolunga, emerge il pensiero di dove sia Dio», che pure, come è noto, si è caricato sulla croce delle nostre sofferenze. «Io mi sono convinto», dice, «che la sofferenza non ha nessun senso», come insegna sant’Agostino d’Ippona (354-430), per il quale il male è semplicemente assenza di bene (il solo che abbia significato), e «che noi non siamo fatti per soffrire, per questo dobbiamo trovare tutti i modi per evitarlo, ma dobbiamo sapere che l’esistenza ha comunque un senso anche quando si soffre», cosa di cui la cultura dominante si dimentica spesso e volentieri, volendo affermare l’individualismo assoluto.
L’uomo è, invece, relazione e «in questo avere relazione con i pazienti può aiutare a diventare migliori. Sono convinto che ogni professione, specie la vostra, abbia bisogno di una spiritualità, di una necessità di fare i conti con se stessi», affinché non si corrano le tentazioni speculari dello scoraggiamento e del delirio di onnipotenza. «Non a caso, alcuni malati ammettono che la sofferenza sia stata una possibilità di porsi domande, di accompagnare altri, di approfondire il senso dell’esistenza. E questo vale per tutti: gli infermieri, il personale, i medici possono vivere il rapporto con i malati, al di là dei protocolli e della tecnica, come un’occasione» per instaurare rapporti più solidi con Dio e con il prossimo, riscoprendo quell’essere relazione dell’uomo che oggi è coartato dalle ideologie mortifere. Infatti, «si può addirittura praticare una relazione con gli altri che costruisce la persona, laddove il morbo la distrugge. Se cerchiamo, anche nella sofferenza, di amare e di aiutare gli altri, capiamo che siamo fatti per qualcosa di grande», testimoniare l’Amore pieno del Risorto. La dignità incommensurabile dell’uomo è trasparente nel Mistero pasquale di Cristo morto e risorto, che consacra ogni condizione umana e mostra a tutti il destino di gloria che ci attende al di là di questo mondo. «È come l’uva che, proprio perché è schiacciata, produce vino buono», spiega con un chiaro riferimento eucaristico. «Talvolta, i giudizi dell’umanità sono deprimenti e pessimisti, ma, in posti come questi, ci si può stupire della grandezza dell’umanità», che sa far fronte anche alla situazione più difficile grazie alla Speranza teologale.
«Noi riusciamo ad attraversare il deserto perché ci sono delle oasi. È determinante il rapporto con i colleghi, una comunicazione con sé e con gli altri che fa crescere e non riduce a essere macchine da lavoro. Il rischio che la sanità sia organizzata come un’azienda, con esigenze di profitto e non di servizio, impone equilibrio» per non scivolare in certe unilateralità. «Bisogna cercare di ordinare» soprattutto «le emozioni», perché ogni singolo istante è emotivamente connotato, ma non ci si può lasciare trascinare dall’emotività come troppi nostri contemporanei. Occorre valutare tutto «con la ragionevolezza, e non con una specie di corazza fatta di logoramento e di indifferenza, specie quando si ha la responsabilità della cura», pertanto «se non serve solo curare, ma prendersi cura, occorrono i tempi e le condizioni per poterlo fare. La formazione, che è essenziale per il giusto aggiornamento tecnico-scientifico, lo è anche per sviluppare una capacita relazionale» altrettanto necessaria della nozione scientifica.
Lunedì, 23 maggio 2022