La tradizionale intervista estiva dell’arcivescovo di Milano pone l’accento sul fatto che nelle parrocchie si “fa” tanto, ma si prega poco
di Michele Brambilla
Mons. Mario Delpini si stava apprestando a partire per il Camerun, dove avrebbe incontrato i missionari ambrosiani fidei donum, quando è risultato positivo al Covid-19. Poiché vaccinato, il 21 luglio esce dalla quarantena dopo aver avuto, ancora una volta, pochi sintomi della malattia. Nel periodo di isolamento, però, risponde per iscritto alla tradizionale intervista estiva, rilasciata ai media diocesani.
Il primo pensiero è per i Gruppi Barnaba, spediti in ogni angolo dell’arcidiocesi per ravvivare il tanto bene fatto e rendicontarne in vista del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità del 2023. «I Gruppi Barnaba», spiega l’arcivescovo, «vogliono rispondere a due domande. La prima relativa a cosa accada nel nostro territorio» per essere ancora più vicini all’uomo del nostro tempo. Mons. Delpini non enuncia la seconda, ma passa direttamente a trattare la questione, parallela, della visita pastorale: «a me sembra di essere come un mendicante che chiede la carità di una testimonianza e che, visitando le singole comunità, raccoglie con stupore la testimonianza di quanto bene si custodisce nelle nostre comunità. Mi sembra anche di essere come quella donna del Vangelo che ha perso la dracma e la cerca affannata. Ho, cioè, l’impressione di una Chiesa che ha operato con molto impegno, e che, tuttavia, sente di aver perso qualcosa, di avere un senso di insignificanza rispetto alla mentalità corrente».
Anche il rapporto con l’oratorio, denuncia, è diventato più materialista: si cercano e si sostengono i tanti “servizi”, ma si trascurano l’istruzione nella dottrina cattolica e la preghiera. Inoltre, «i ragazzi percepiscono con particolare intensità le situazioni familiari. Dove la famiglia è unita, dove i genitori sono capaci di perdonarsi e di camminare insieme, gli adolescenti trovano un punto di riferimento rassicurante. Dove ci sono tensioni e forme di violenza, risentono della fragilità delle famiglie stesse. Perché gli adolescenti escano dal disagio, occorrono adulti che rivelino la vita come percorso promettente», ma soprattutto vivano un’autentica spiritualità cristiana a tutto tondo.
In occasione della guerra in Ucraina, i cattolici milanesi hanno riscoperto la capacità della preghiera di unire popoli fratelli. «Ci siamo», infatti, «trovati a pregare tra diverse confessioni proprio per sottolineare lo sconcerto per una guerra che contrappone popoli di antica tradizione cristiana e per dire il senso d’impotenza di fronte a spettacoli di morte e a distruzioni incalcolabili. Ma abbiamo pregato insieme anche per dire la nostra fede: nei momenti della tragedia, Dio opera, chiama, converte. Noi siamo il popolo della speranza, perché riteniamo che il Regno di Dio non è di questo mondo, ma è presente in questo mondo con segni che sono promettenti per la salvezza dell’umanità».
Ecco, allora, una lettera pastorale incentrata proprio sulla preghiera: «sento che questo sia un punto determinante per una Chiesa che nasce dall’Eucaristia». Il nodo è proprio questo, perché «a me sembra che la nostra Chiesa, così attiva, così capace d’iniziative, talvolta così stanca di fronte al peso delle cose da conservare e da fare, abbia bisogno oggi di una preghiera intensa, di una preghiera liturgica ben celebrata, di una preghiera che formi una sensibilità ecclesiale che unisce non per buona volontà di qualcuno, ma per il dono dello Spirito che scende su tutti».
Lunedì, 25 luglio 2022