Il card. Martini e la tentazione di una “fuga” dal nostro tempo
di Michele Brambilla
Il 31 agosto si commemoreranno i 10 anni dalla morte del card. Carlo Maria Martini (1927-2012), che ha per molti versi segnato il volto dell’arcidiocesi di Milano. Sono in corso varie commemorazioni, la migliore delle quali sembra essere la scelta di pubblicare sul sito diocesano un “dossier” per parole chiave, che ne riassumono il Magistero episcopale. Proprio dal succitato Magistero traggo le omelie del Giovedì Santo 1999 (1 aprile), particolarmente significative per la consonanza con i timori, le preoccupazioni e le speranze del nostro tempo.
L’omelia della Messa crismale, infatti, suggeriva alcune vie di consolazione spirituale per un clero ambrosiano che iniziava a sentire il peso della “secolarizzazione” (noi di Alleanza Cattolica diremmo della Rivoluzione nella sua quarta fase) anche nelle nostre terre. Gravava, in quel momento, anche la contemporaneità con le guerre etniche in Kosovo, che ricordano in parte, per le dinamiche e gli schieramenti internazionali, le attuali vicende in Ucraina. «Non si verifica forse nei nostri cuori», chiese l’allora arcivescovo in Duomo, «un tale smarrimento e una tale lacerazione, da farci sentire impotenti e da indurci allo sconforto e al cinismo?». «Parlando in generale mi pare di cogliere non di rado segni di una qualche fatica e un po’ di timore» per come sta procedendo la storia, che appare molto diversa da quella che si era immaginata in gioventù o, nel caso dei sacerdoti, nelle aule del Seminario.
L’arcivescovo vedeva in atto un «rapidissimo cambio culturale» di fronte al quale la Chiesa appariva e appare ancora in affanno, a cui «si aggiunge il fatto che tra noi e ancora di più tra i fedeli coesistono, a causa di questi rapidi cambiamenti, due atteggiamenti verso il nostro tempo», la nostalgia per una certa “forma” perduta e l’abbraccio delle nuove correnti di pensiero senza obiezioni. Il card. Martini punta ad instillare, come rimedio, «la persuasione che se il Signore ci ha chiamato a vivere in questo tempo e a servirlo qui e ora» significa che l’imminente XXI sec. non sarà necessariamente l’epoca più impermeabile al Vangelo, se gli si offrirà una testimonianza convinta e libera, come ripete oggi anche mons. Mario Delpini.
Nell’omelia della Messa in Coena Domini, appoggiandosi in particolare alla pericope del Libro di Giona, che all’epoca andava da Gio 1,1 a Gio 4,11, comprendendo quindi anche la scena in cui Dio Padre spiega al profeta, rammaricato per la morte prematura del ricino che gli dava l’ombra mentre riposava, in cosa consista la sua misericordia per ogni uomo, compresi gli abitanti di Ninive, il card. Martini spiegava fin dalla titolazione che nel peccatore non si è spento «l’anelito al cielo». «Il Giovedì Santo è la celebrazione della misericordia del Padre. Soltanto l’iniziativa d’amore di Dio per noi spiega l’Eucaristia e la passione del Figlio». Dalla lettura di Giona e dall’altrettanto lunga pagina di Vangelo (Mt 26,17-75), rimasta sostanzialmente invariata nel Lezionario attuale (2008), traiamo come insegnamento che «il comportamento di Gesù nell’Ultima Cena ci chiede di abbandonarci al Padre con speranza illimitata». Una speranza (questo lo aggiungiamo noi, e forse il card. Martini non lo condividerebbe) che comprende anche la rinascita futura di quella civiltà cristiana che ha reso grande l’Europa.
Lunedì, 29 agosto 2022