L’arcivescovo riflette sul rapporto tra Fede e letteratura partire da alcuni titoli accostati alla biografia di san Giovanni XXIII, il Papa che indisse il Concilio Vaticano II
di Michele Brambilla
Pochi ricordano che san Giovanni XXIII (1881-1963), il promotore del Concilio Vaticano II (1962-65), fu anche un grande storico ecclesiastico e un uomo di indubbia cultura. Se la sua opera storiografica si concentrò soprattutto sulle visite pastorali tridentine nella sua diocesi di Bergamo, i suoi interessi di lettore furono molto più vasti. Non ne furono esenti le colonne della stessa letteratura italiana. L’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dedica a questo tema un convegno, intitolato «In dialogo con Dante e Manzoni. Giovanni XXIII e i grandi autori italiani», che si tiene l’8 marzo alla presenza di mons. Mario Delpini.
L’arcivescovo struttura il suo intervento attorno ad alcune citazioni chiave: la prima è di Michael Ende (1929-95), tratta precisamente da Lo specchio nello specchio, che descrive un viaggio infinito. Mons. Delpini, paragonando i protagonisti del romanzo agli uomini nostri contemporanei, osserva che «la gente percorre la terra smarrita e inquieta in un universo che ha smarrito il suo senso, frantumatosi in un dissenso, e scrive sulla terra percorsi che sembrano, infatti, insensati. Eppure vanno, camminano guidati dalla parola e scrivono, con il loro andare, la parola che cercano. Così si può intendere la letteratura, come un’opera di fede» anche quando non ne interpreta esplicitamente i contenuti. «Se la parola tiene unite tutte le cose e salva il mondo dal frantumarsi», come in gran parte delle opere di Ende, «la letteratura è una pratica della fede» perché diventa guida verso l’unica Parola che salva.
La citazione più rilevante è da Il quinto Evangelio di Mario Pomilio (1921-90), il quale ritiene che la letteratura e la fede non siano «due ipostasi da collegare cercando qualche possibile ipotesi», ma costruiscano un rapporto nel quale la prima diventa «un affidarsi alla ricerca per tentare di scrivere l’impossibile libro felice», fino a sostenere che «se i Vangeli – per usare le parole di Pomilio – non sono rimasti un libro come tanti, finito e concluso nei confini del suo tempo, ciò è accaduto anche perché il modo in cui ci è stato trasmesso il messaggio di Cristo ci ha predisposti verso l’apocrifo, o altrimenti all’attesa d’un supplemento di rivelazione, maldestro quanto si vuole», ma desideroso di comprendere in profondità un Uomo, il Risorto, che è vivo e operante.
In questo modo, sottolinea l’arcivescovo, «si può immaginare la storia della letteratura come la stesura del quinto Evangelio, di quel supplemento di rivelazione che non aggiunge nuove dottrine, ma che predispone la vita umana ad accogliere la vita di Dio, interrogando continuamente i drammi e le gioie, gli amori e le vicende storiche, i viaggi nell’anima e i viaggi tra i popoli». Adattando un’espressione molto antica, «la letteratura è un modo per ritrovare i semi del Verbo e anche la letteratura più ignara dei Vangeli può essere, così, un modo per esprimere il tutto: un modo di essere uomini, di essere vivi che rende simili e disponibili ad accogliere la vita di Dio». Si può leggere così «anche l’opera di Giovanni XXIII, che ha avuto simpatia per il mondo, che ha cercato più ciò che unisce che ciò che divide e che ha intuito la necessità di un aggiornamento della Chiesa. Opera che non è stata la riproposizione di un testo da insegnare, piuttosto il mostrare come l’unico Vangelo diventa, per ogni generazione, la responsabilità di scrivere il quinto evangelio», ovvero di evangelizzare il mondo circostante.
Lunedì, 13 marzo 2023