Anche il disabile è figlio di Dio e può far grandi cose, come insegna una mostra inaugurata da mons. Delpini il 5 marzo
di Michele Brambilla
Il 5 marzo si inaugura al Museo diocesano di Milano una mostra, intitolata Divine creature, che raccoglie 10 scatti fotografici, realizzati da ragazzi disabili, che mettono in scena alcuni capolavori artistici dedicati alla vita di Cristo. I giovani fanno anche da guide ai visitatori nella giornata inaugurale, presieduta dallo stesso arcivescovo mons. Mario Delpini e dal vicario per la cultura, mons. Luca Bressan.
Prendendo spunto da una particolare opera, anch’essa esposta, nella versione originale, nel Museo diocesano per solennizzare la Quaresima, ovvero il Compianto sul Cristo morto di Giovanni Bellini (1427-1516), mons. Bressan osserva che «il “Compianto” mostra come Dio sia capace dalla morte di dare la vita e così accade posando lo sguardo su queste opere, dalle quali dobbiamo farci guardare, perché in noi c’è una traccia irriducibile del Signore che nessuna disabilità può cancellare». Anche i “portatori di handicap” sono, quindi, creature amate dal Signore e riempite di doni singolari. Lo si può notare nell’intensità con la quale riescono a riprodurre quadri come l’Annunciazione di Antonello da Messina (1425-79).
«La bellezza si può intendere come un apparire che genera attrattiva, che significa il desiderio di avere e di possedere una persona, ma questo atteggiamento contiene un peccato originale, appunto ridurre una persona a un oggetto del mio desiderio», riflette mons. Delpini, «mentre per fare esperienza di questa mostra dal punto di vista spirituale, occorre una conversione, come sempre quando guardiamo qualcosa di bello», ma in questo caso espresso da qualcuno che, nella cultura contemporanea, potrebbe essere definito “deforme” e diventare oggetto della “cultura dello scarto”. L’arcivescovo richiama, in proposito, la contemplazione del Crocifisso, ovvero di Gesù nel momento di massima impotenza e deturpazione, che però coincide con il Sacrificio salvifico per tutta l’umanità.
«La bellezza non dipende, infatti, da un’estetica che si fa amare o da una perfezione, ma è un’attrattiva che trasfigura ciascuno di noi in una persona capace non solo di possesso, ma di amare, di alzare lo sguardo con un amore che avvicina a Dio e che non è monopolio di nessuno», prosegue infatti l’arcivescovo. «Questo significa che ogni persona è capace di suscitare amore, chiunque sia e qualunque sia la sua condizione, senza porre distinzione di come si presenta l’aspetto fisico», se corrispondente o meno ai nostri “canoni estetici” o all’idea di efficienza contemporanea. Per Dio ognuno di noi ha un valore immenso, in qualunque condizione o stadio della vita si trovi.
«La sfida della mostra è invitarci a tale conversione, attraverso immagini che sono amabili perché rendono capaci di amare, inducono a scavare dentro di noi per comprendere che la nostra natura è chiamata ad amare e non a possedere», il che vuol dire anche non presumere di poter regolare da noi stessi il diritto alla vita sulla terra.
Lunedì, 11 marzo 2024